cupidigia
[cu-pi-dì-gia]
In sintesi
desiderio smodato
← lat. volg. *cupiditĭa(m), deriv. di cupĭdus ‘cupido’.
s.f.
(pl. -gie)
spreg. Desiderio sfrenato, ardente di qualcosa, spec. di ricchezze, onori, potere: la cieca c. che v'ammalia (Dante); c. di denaro; c. di gloria
|| Desiderio sfrenato di piaceri fisici; concupiscenza, libidine: appagare ... la terribile c. carnale (D'Annunzio)
|| Avidità di cibi, ingordigia
Citazioni
“lui cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di vendetta, ora, nel metter le mani addosso a questa sconosciuta, a questa povera contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore. Da un’alta finestra del suo castellaccio, guardava da qualche tempo verso uno sbocco della valle; ed ecco spuntar la carrozza, e venire innanzi lentamente: perché quel primo andar di carriera aveva consumata la foga, e domate le forze de’ cavalli. E benché, dal punto dove stava a guardare, la non paresse più che una di quelle carrozzine che si danno per balocco ai fanciulli, la riconobbe subito, e si sentì il cuore batter più forte. – Ci sarà? – pensò subito; e continuava tra sé: – che noia mi dà costei! Liberiamocene. – E voleva chiamare uno de’ suoi sgherri, e spedirlo subito incontro alla carrozza, a ordinare al Nibbio che voltasse, e conducesse colei al palazzo di don Rodrigo. Ma un “no” imperioso che risonò nella sua mente, fece svanire quel disegno. Tormentato però dal bisogno di dar qualche ordine, riuscendogli intollerabile lo stare aspettando oziosamente quella carrozza che veniva avanti passo passo, come un tradimento, che so io? come un gastigo, fece chiamare una sua vecchia donna. Era costei nata in quello stesso castello, da un antico custode di esso, e aveva passata lì tutta la sua vita. Ciò che aveva veduto e sentito fin dalle fasce, le aveva impresso nella mente un concetto magnifico e terribile del potere de’ suoi padroni; e la massima principale che aveva attinta dall’istruzioni e dagli esempi, era che bisognava ubbidirli in ogni cosa, perché potevano far del gran male e del gran bene. L’idea del dovere, deposta come un germe nel cuore di tutti gli uomini, svolgendosi nel suo, insieme co’ sentimenti d’un rispetto, d’un terrore, d’una cupidigia servile, s’era associata e adattata a quelli. Quando l’innominato, divenuto padrone, cominciò a far quell’uso spaventevole della sua forza, costei ne provò da principio un certo ribrezzo insieme e un sentimento più profondo di sommissione. Col tempo, s’era avvezzata a ciò che aveva tutto il giorno davanti agli occhi e negli orecchi: la volontà potente e sfrenata d’un così gran signore, era per lei come una specie di giustizia fatale. Ragazza già fatta, aveva sposato un servitor di casa, il quale, poco dopo, essendo andato a una spedizione rischiosa, lasciò l’ossa sur una strada, e lei vedova nel castello. La vendetta che il signore ne fece subito, le diede una consolazione feroce, e le accrebbe l’orgoglio di trovarsi sotto una tal protezione. D’allora in poi, non mise piede fuor del castello, che molto di„I promessi sposi - Parte II di Alessandro Manzoni
“Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno, 40 da tutte parti l’alta valle feda tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo sentisse amor, per lo qual è chi creda più volte il mondo in caòsso converso; e in quel punto questa vecchia roccia, qui e altrove, tal fece riverso. Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia la riviera del sangue in la qual bolle qual che per vïolenza in altrui noccia”. 50 Oh cieca cupidigia e ira folle, che sì ci sproni ne la vita corta, e ne l’etterna poi sì mal c’immolle! Io vidi un’ampia fossa in arco torta, come quella che tutto ’l piano abbraccia, secondo ch’avea detto la mia scorta; 55 e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia. Veggendoci calar, ciascun ristette, e de la schiera tre si dipartiro con archi e asticciuole prima elette; e l’un gridò da lungi: “A qual martiro venite voi che scendete la costa? Ditel costinci; se non, l’arco tiro”. 65 Lo mio maestro disse: “La risposta farem noi a Chirón costà di presso: mal fu la voglia tua sempre sì tosta”. Poi mi tentò, e disse: “Quelli è Nesso, che morì per la bella Deianira e fé di sé la vendetta elli stesso. 70 E quel di mezzo, ch’al petto si mira, è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira.„Divina Commedia di Dante Alighieri
“Op. Grande biblioteca della letteratura italiana ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli � Dante Alighieri Divina Commedia Purgatorio O Alberto tedesco ch’abbandoni costei ch’è fatta indomita e selvaggia, e dovresti inforcar li suoi arcioni, 100 giusto giudicio da le stelle caggia sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto, tal che ’l tuo successor temenza n’aggia! Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto, per cupidigia di costà distretti, 105 che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto. Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura: color già tristi, e questi con sospetti! Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura 110 d’i tuoi gentili, e cura lor magagne; e vedrai Santafior com’è oscura! Vieni a veder la tua Roma che piagne vedova e sola, e dì e notte chiama: “Cesare mio, perché non m’accompagne?”. 115 Vieni a veder la gente quanto s’ama! e se nulla di noi pietà ti move, a vergognar ti vien de la tua fama.„Divina Commedia di Dante Alighieri
“onde pianse Efigènia il suo bel volto, e fé pianger di sé i folli e i savi ch’udir parlar di così fatto cólto. Siate, Cristiani, a muovervi più gravi: non siate come penna ad ogne vento, e non crediate ch’ogne acqua vi lavi. Avete il novo e ’l vecchio Testamento, e ’l pastor de la Chiesa che vi guida; questo vi basti a vostro salvamento. 75 80 Se mala cupidigia altro vi grida, uomini siate, e non pecore matte, sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida! Non fate com’agnel che lascia il latte de la sua madre, e semplice e lascivo seco medesmo a suo piacer combatte!”.„Divina Commedia di Dante Alighieri
“e come il tempo tegna in cotal testo le sue radici e ne li altri le fronde, 120 omai a te può esser manifesto. Oh cupidigia, che i mortali affonde sì sotto te, che nessuno ha podere di trarre li occhi fuor de le tue onde! Ben fiorisce ne li uomini il volere; 125 ma la pioggia continüa converte in bozzacchioni le sosine vere. Fede e innocenza son reperte solo ne’ parvoletti; poi ciascuna pria fugge che le guance sian coperte.„Divina Commedia di Dante Alighieri
“Ed ecco alfine il fin, prendete essempio temerari superbi! a cui soggiace l’alterigia mortal, che giusto scempio dal ciel aspetta, e l’insolenza audace. Cadde e caduto ancor mostrò quest’empio segni d’ira arrogante e pertinace: con atti di furor, non di cordoglio, minacciando spirò l’ultimo orgoglio. Adon fra questo mezzo era assai prima campato fuor del periglioso varco perché, veggendo scintillar dal’ima parte le stelle ove s’apria quell’arco, asceso dela volta insu la cima, il passo si spedì leggiero e scarco e, malgrado de’ rubi e del’ortiche, al termine arrivò dele fatiche. Uscito fuor di tenebre e di grotte, mosse ai passi dubbiosi i piè tremanti, né molto andò per quelle balze rotte che sentì gente caminarsi avanti e vide, perché chiara era la notte, per la strada medesma andar tre fanti e ‘l primo innanzi ai duo, sicome duce, portava in cavo ferro ascosa luce. Furcillo era costui, che posto cura quando da Malagor sepolta fue, venia Filora a trar del’urna oscura per cupidigia dele spoglie sue. Or tosto ch’ad aprir la sepoltura fu giunto il ladroncel con gli altri due, la lapida levar che la copria e ‘l cadavere suo ne portar via.„L Adone - Volume secondo (canti 14-20) di Giovan Battista Marino
“Guglielmo Borsiere con leggiadre parole trafigge l’avarizia di messer Ermino de’ Grimaldi. Sedeva appresso Filostrato Lauretta, la quale, poscia che udito ebbe lodare la ‘ndustria di Bergamino e sentendo a lei convenir dire alcuna cosa, senza alcuno comandamento aspettare piacevolmente così cominciò a parlare: – La precedente novella, care compagne, m’induce a voler dire come un valente uomo di corte similmente, e non senza frutto, pugnesse d’un ricchissimo mercatante la cupidigia; la quale, perché l’effetto della passata somigli, non vi dovrà per ciò esser men cara, pensando che bene n’adivenisse alla fine. Fu adunque in Genova, buon tempo è passato, un gentile uomo chiamato messere Ermino de’ Grimaldi, il quale, per quello che da tutti era creduto, di grandissime possessioni e di denari di gran lunga trapassava la ricchezza d’ogni altro ricchissimo cittadino che allora si sapesse in Italia. E sì come egli di ricchezza ogni altro avanzava che italico fosse, così d’avarizia e di miseria ogni altro misero e avaro che al mondo fosse soperchiava oltre misura: per ciò che non solamente in onorare altrui teneva la borsa stretta, ma nelle cose oportune alla sua propria persona, contra il general costume de’ genovesi che usi sono di nobilemente vestire, sosteneva egli per non ispendere difetti grandissimi, e similmente nel mangiare e nel bere. Per la qual cosa, e meritamente, gli era de’ Grimaldi caduto il sopranome e solamente messere Ermino Avarizia era da tutti chiamato. Avvenne che in questi tempi, che costui non ispendendo il suo multiplicava, arrivò a Genova un valente uomo di corte e costumato e ben parlante, il qual fu chiamato Guiglielmo Borsiere, non miga simile a quegli li quali sono oggi, li quali, non senza gran vergogna de’ corrotti e vituperevoli costumi di coloro li quali al presente vogliono essere gentili uomini e signor chiamati e reputati, son più tosto da dire asini nella bruttura di tutta la cattività de’ vilissimi uomini allevati che nelle corti. E là dove a que’ tempi soleva essere il lor mestiere e consumarsi la lor fatica in trattar paci, dove guerre o sdegni tra gentili uomini fosser nati, o trattar matrimonii, parentadi e amistà, e con belli motti e leggiadri ricreare gli animi degli affaticati e sollazzar le corti e con agre riprensioni, sì come padri, mordere i difetti de’ cattivi, e questo con premii assai leggieri; oggi di rapportar male dall’uno all’altro, in seminare zizzania, in dir cattività e tristizie, e, che è peggio, in farle nella„Decameron di Giovanni Boccaccio
“XCII Come e per che modo fu distrutta l’ordine e magione del Tempio di Gerusalem per procaccio del re di Francia. Nel detto anno MCCCVII, innanzi che ’l re di Francia si partisse da la corte a Pittieri, sì accusò e dinunziò al papa per sodducimento de’ suoi uficiali, e per cupidigia di guadagnare sopra loro, il maestro del Tempio e la magione di certi crimini ed errori che al re fu fatto intendente che’ Tempieri usavano. Il primo movimento fu per uno priore di Monfalcone di tolosana de la detta ordine, uomo di mala vita ed eretico, e per gli suoi difetti messo in Parigi in perpetuale carcere per lo suo maestro. E trovandovisi dentro con uno Noffo Dei nostro Fiorentino, pieno d’ogni magagne, sì come uomini disperati d’ogni salute, e maliziosi e rei, con trovare la detta falsa accusa, e per guadagnare e uscire di pregione per l’aiuto del re. Ma ciascuno di loro feciono mala fine poco appresso: Noffo impiccato, e ’l priore morto a ghiado. Per fare al re guadagnare la misono innanzi a’ suoi uficiali, e’ detti il misono dinanzi al re; onde per sua avarizia si mosse il re, e sì ordinò e fecesi promettere segretamente al papa di disfare l’ordine de’ Tempieri, opponendo contro a·lloro molti articoli di resia: ma più si dice che fu per trarre di loro molta moneta, e per isdegni presi col maestro del Tempio e colla magione. Il papa per levarsi d’adosso il re di Francia, per la richesta ch’egli avea fatta del condannare papa Bonifazio, come avemo detto dinanzi, o ragione o torto che fosse, per piacere al re gli asentì di ciò fare; e partito il re, in uno dì nomato per sue lettere, fece prendere tutti i Tempieri per l’universo mondo, e staggire tutte le loro chiese e magioni e possessioni, le quali erano quasi innumerabili di podere e ricchezze; e tutte quelle del reame di Francia fece occupare il re per la sua corte, e a Parigi fece prendere il maestro del Tempio, il quale avea nome fra Giache de’ signori da Mollai in Borgogna, con LX frieri cavalieri e gentili uomini, opponendo contro a·lloro certi articoli di resia, e certi villani peccati contra natura ch’usavano tra·lloro; e che alla loro professione giuravano d’atare la magione a diritto e a torto, e a uno modo quasi come idolari, e isputavano nella croce, e che quando il loro maestro si consegrava era di nascoso e privato, e non si sapea il modo; e opponendo che i loro anticessori per tradimento feciono perdere la Terrasanta, e prendere a la Monsura il re Luis e’ suoi. E sopra ciò fatte dare per lo re certe pruove, gli fece tormentare di diversi tormenti perché confessassono; e non si truova che niente volessono di ciò confessare né Op. Grande biblioteca della letteratura italiana ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli„Nuova cronica - Volume 2 (Libri IX-XI) di GiovanniVillani
“e’ fedeli dello imperio di Lombardia e di Toscana, distrutti per modo che mai non porrebbe passare in Italia né avere la corona dello ’mperio. Il Tedesco per queste ragioni e per la cupidigia della moneta fue scommosso, e mandòe al suo fratello Arrigo, ch’era a Brescia, che cogliesse alcuna cagione e si tornasse addietro. Il quale avuto il mandato del fratello, e disparte dal capitano di Milano e dagli altri tiranni di Lombardia moneta assai, avendo ordinato co’ Bresciani e col patriarca d’Aquilea e con loro séguito d’andare ad oste sopra la città di Bergamo, ch’era in trattato d’arendersi a·lloro, mosse quistione a’ Bresciani, che in prima che si partisse volea la signoria di Brescia. I Bresciani negando che no·lla poteano dare, perché vacando imperio s’erano dati al re Ruberto, incontanente sanza niuno ritegno si partì de la terra a dì XVIII di maggio MCCCXXII, e con tutta sua gente se n’andò a Verona, il quale da messer Cane della Scala signore di Verona onorevolemente fu ricevuto e presentato di ricchi doni; poi appresso sanza dimoro se n’andò in Alamagna, guastando a la Chiesa sì grande impresa e sì bello servigio incominciato, per sì fatto tradimento. CXLVI Come i Pistolesi feciono triegua con Castruccio contra ’l volere de’ Fiorentini. Nel detto anno MCCCXXII, del mese d’aprile, essendo i Pistolesi molto gravati di guerra da Castruccio signore di Lucca, il quale tenea il castello di Serravalle presso a tre miglia a Pistoia, trattato ebbono co·llui di triegua; onde i Fiorentini entraro in grande gelosia, che Castruccio sotto la detta triegua non prendesse la terra; per la quale cosa più volte vi mandarono loro ambasciadori per isturbarla. A la fine la terra si levò a romore, e feciono loro capitano di popolo l’abate di Pacciana di Tedici, che volea la detta triegua, e contra volontà de’ Fiorentini la feciono, dando di trebuto a Castruccio III m fiorini d’oro l’anno, e cacciarne per ribelli il vescovo e altri caporali che teneano co’ Fiorentini. CXLVII Come in Siena ebbe romore e novitade. Nell’anno MCCCXXII, del mese d’aprile, la città di Siena fue a romore per cagione che quegli della casa de’ Salimbeni uccisono una notte due frategli carnali figliuoli di cavaliere della casa de’ Tolomei, loro nemici, nelOp. Grande biblioteca della letteratura italiana ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli„Nuova cronica - Volume 2 (Libri IX-XI) di GiovanniVillani
“XXXI Se con speranza di mercé perduti ho i miglior anni in vergar tanti fogli, e vergando dipingervi i cordogli che per mirar alte bellezze ho avuti; 5 e se fin qui non li so far sì arguti che l’opra lor cor ad amarmi invogli; non ho da attender più che ne germogli nuovo valor ch’in questa età m’aiuti. Dunque, è meglio il tacer, donne, che ‘l dire, poi che de’ versi miei non piglio altr’uso che dilettar altrui del mio martìre. Se voi Falare sète, io mi v’escuso, ché non voglio esser quel che, per udire dolce doler, fu nel suo toro chiuso. XXXII Lasso! i miei giorni lieti e le tranquille notti che i sonni già mi fér soavi, quando né amor né sorte m’eran gravi, né mi cadean da li occhi ardenti stille; 5 come, perch’io continuo da le squille all’alba il seno lacrimando lavi, son vòlti a stato, onde ‘l cor par s’aggravi del suo vivo calor, che più sfaville! O folle cupidigia, o mai, no, al merto pregiata libertà, senza di cui l’oro e la vita ha ogni suo pregio incerto; come beato e miser fate altrui! E l’un de l’altro è morte e caso certo; or ché, piangendo, penso a quel ch’io fui? 10 10 37 Op. Grande biblioteca della letteratura italiana ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli„Rime di Ludovico Ariosto
“Ma quando egli tornava a rivedere la donna amata, non eleggeva di ritornarvi? Poco importa se eleggesse di ritornarvi, ma certo con consiglio d’innamorarsi non vi ritornava. Ma bench’il suo amore in questa guisa cominciasse, non è irragionevole ch’altri, la prima volta senz’alcun’elezione oltra modo d’alcuna bellezza compiacendosi, di lei possa innamorarsi: che se ciò non fosse possibile, indarno sarebbe stato detto: Ut vidi, ut perii, ut me malus abstulit error. Dunque molti sono gli amori volontarî che non sono per elezione? Sono. Non è dunque maraviglia che quel del cavaliero del qual ragioniamo sia più tosto volontario che per elezione. Agevolmente a creder mio. Ma volontari son detti quelli ancora i quali si fanno per cupidigia, avegnaché gli involontari paiano violenti: e ove sia violento, sarà ancora acerbo; tutta volta più volontari son quelli però, se per volontà saran fatti che se per. Ma gli amori sì fatti possono aver così il fine com’il principio volontario? A la volontà e a l’appetito per aventura non può non piacere quel che è piacevole o che le pare; onde molte fiate queste potenze sono quasi sforzate da l’obietto: e questo è forse quello che d’alcuno è chiamato destino, il qual io non so vedere perché sia più ne l’amore che ‘n alcuna de l’altre cose; forse non è in veruna. Ma colui c’ha l’animo così ben avezzo che sol le belle e le buone cose soglion piacergli, non amerà mai in guisa che sia da l’amor condotto a far cose non convenienti, e potrà, non dirò a sua voglia stimare non piacevole quel che pare a gli occhi, ma a sua voglia disamare, il piacevole disprezzando. Dunque, tutto che la donna prima amata come prima gli piacesse, potrebbe nondimeno rimanersi di cotale amore? Potrebbe a parer mio, perché l’amore e ‘l compiacimento son per aventura diversi. E se ‘l cavaliero del qual ragioniamo, non conosciuto da noi, ha così moderati gli affetti come dee, ove d’amar la sua donna non avesse voluto rimanersi, doveva nondimeno infingersi di conoscere i suoi non convenevoli desideri, né far cosa per compiacimento di lei, che a la cortesia di cavaliero non convenisse. Così credo.„ Dialogo di Torquato Tasso
“che a gli amanti istessi: il che io m’ingegnerò di provarvi, perché non istimo sì poco i favori di coloro de le quali non sono amante, che non mi debba parer questa assai piacevol fatica. Ma prima, signora Giulia, che ‘l nostro ragionamento più oltre proceda, vorrei che tra noi rimanessimo d’accordo quel che fosse amore; percioché alcuni d’amor parlano come s’essi fossero non uomini ma intelligenzie, i quali altro che l’animo non mostrano d’amare: e se pur de gli occhi o de la bocca de la sua donna ragionano alcuna volta, non passano nondimeno più oltre, né gli altri sentimenti del corpo chiamano a parte de’ diletti amorosi. Ma io per me credo che l’uomo, che è composto di sentimento e di ragione, voglia ne l’amore appagar così i sentimenti tutti come la ragione: laonde direi che l’amor fosse desiderio d’abbracciamento. Piacevi, o signora Giulia, questa diffinizione, o pur ancora alcun’altra cosa ci desiderate? G.C. A me tanto più piace di quella c’ho spesso udito addur da gli altri, che l’amor sia desiderio di bellezza, quanto più mi pare che ci possa far accorte che noi da voi altri debbiam guardarci; ma se l’altra stimeremo buona, molto di voi ci potrem fidare, percioché la bellezza, se ‘l vero n’ho udito, non può esser in alcun modo obietto del tatto; e, fidandocene, poco caute forse ci dimostreremmo, e troppo semplici e facili da esser ingannate. Non mancano de’ filosofi i quali vogliono che non solo la vista e l’udito, ma tutti i sensi posson esser giudici de la bellezza. La bellezza a me pare cosa spiritale anzi che no; e se ‘l tatto ne fosse giudice, ella sarebbe materialissima, come son forse que’ filosofi: ma io non servo lor credenza e credo a [...]. Mi piace che la verità detta da me sia creduta da voi, quantunque a me stesso potesse esser dannosa; ma non vorrei, bench’io stimi amore cupidità d’abbracciamento, ch’ogni sì fatta cupidigia sia amore: percioché, s’alcun desidera gli abbracciamenti per un cotal bisogno di natura o pur se non più d’un che d’un altro abbracciamento è cupido, non è detto amadore in alcun modo, ma amante solo si dice colui che de gli abbracciamenti è cupido per compiacimento ch’abbia d’alcuna particolar bellezza. Dunque, se vi pare, diremo ch’amor sia cupidità d’abbracciamento per compiacimento di particolar bellezza, son cupidi. Assai mi pare d’aver inteso quel che sia amante. Ma accioché meglio gli amanti da’ non amanti sian conosciuti, saper debbiamo che ne gli animi nostri signoreggiano, per così dire, l’opinione Op. Grande biblioteca della letteratura italiana ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli„ Dialogo di Torquato Tasso
“Op. Grande biblioteca della letteratura italiana ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli Q Torquato Tasso La Gerusalemme liberata Canto primo 9 Ma vede in Baldovin cupido ingegno, ch’a l’umane grandezze intento aspira: vede Tancredi aver la vita a sdegno, tanto un suo vano amor l’ange e martira: e fondar Boemondo al novo regno suo d’Antiochia alti princìpi mira, e leggi imporre, ed introdur costume ed arti e culto di verace nume; 10 e cotanto internarsi in tal pensiero, ch’altra impresa non par che più rammenti: scorge in Rinaldo e animo guerriero e spirti di riposo impazienti; non cupidigia in lui d’oro o d’impero, ma d’onor brame immoderate, ardenti: scorge che da la bocca intento pende di Guelfo, e i chiari antichi essempi apprende. 11 Ma poi ch’ebbe di questi e d’altri cori scòrti gl’intimi sensi il Re del mondo, chiama a sé da gli angelici splendori Gabriel, che ne’ primi era secondo. È tra Dio questi e l’anime migliori interprete fedel, nunzio giocondo: giù i decreti del Ciel porta, ed al Cielo riporta de’ mortali i preghi e ’l zelo. 12 Disse al suo nunzio Dio: — Goffredo trova, e in mio nome di’ lui: perché si cessa? perché la guerra omai non si rinova a liberar Gierusalemme oppressa? Chiami i duci a consiglio, e i tardi mova a l’alta impresa: ei capitan fia d’essa. Io qui l’eleggo; e ’l faran gli altri in terra, già suoi compagni, or suoi ministri in guerra.-„La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso
“Op. Grande biblioteca della letteratura italiana ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli Q Torquato Tasso La Gerusalemme liberata Canto secondo 97 Ma né ’l campo fedel, né ’l franco duca si discioglie nel sonno, o almen s’accheta, tanta in lor cupidigia è che riluca omai nel ciel l’alba aspettata e lieta, perché il camin lor mostri, e li conduca a la città ch’al gran passaggio è mèta. Mirano ad or ad or se raggio alcuno spunti, o si schiari de la notte il bruno.„La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso
“49 ma di più vago sol più dolce vista, misero! i’ perdo, e non so già se mai in loco tornerò che l’alma trista si rassereni a gli amorosi rai. Poi gli sovien d’Argante, e più s’attrista e: Troppo dice al mio dover mancai; ed è ragion ch’ei mi disprezzi e scherna! O mia gran colpa! o mia vergogna eterna! 50 Così d’amor, d’onor cura mordace quinci e quindi al guerrier l’animo rode. Or mentre egli s’afflige, Argante audace le molli piume di calcar non gode; tanto è nel crudo petto odio di pace, cupidigia di sangue, amor di lode, che, de le piaghe sue non sano ancora, brama che ’l sesto dì porti l’aurora. 51 La notte che precede, il pagan fero a pena inchina per dormir la fronte; e sorge poi che ’l cielo anco è sì nero che non dà luce in su la cima al monte. — Recami — grida — l’arme — al suo scudiero, ed esso aveale apparecchiate e pronte: non le solite sue, ma dal re sono dategli queste, e prezioso è il dono. 52 Senza molto mirarle egli le prende né dal gran peso è la persona onusta, e la solita spada al fianco appende, ch’è di tempra finissima e vetusta. Qual con le chiome sanguinose orrende splender cometa suol per l’aria adusta, che i regni muta e i feri morbi adduce, a i purpurei tiranni infausta luce;„La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso
“corrono entrambi del pari la intrapresa carriera. Ora, chi potrà pure asserire che l’ambizioso in repubblica non abbia per meta la gloria più assai che la potenza? e che l’ambizioso nella tirannide si proponga altra meta, che la potenza, la ricchezza, e la infamia? Ma, non tutte le ambizioni, hanno per loro scopo la suprema autorità. Quindi, nell’uno e nell’altro governo, si trova poi sempre un infinito numero di semi–ambiziosi, a cui bastano i semplici onori senza potenza; ed un numero ancor più infinito di vili, a cui basta il guadagno senza potenza nè onori. E milita anche per costoro, nell’uno e nell’altro governo, la stessa differenza e ragione. Gli onori nelle repubbliche non si rapiscono coll’ingannare un solo, ma si ottengono col giovare o piacere ai più: ed i più non vogliono onorare quell’uno, se egli non lo merita affatto; perchè facendolo, disonorano pur troppo sè stessi. Gli onori nella tirannide (se onori chiamar pur si possono) vengono distribuiti dall’arbitrio d’un solo; si accordano alla nobiltà del sangue per lo più; alla fida e total servitù degli avi; alla perfetta e cieca obbedienza, cioè all’intera ignoranza di sè stesso; al raggiro; al favore; e alcune volte, al valore contra gli esterni nemici. Ma, gli onori tutti (qualunque siano) sempre per loro natura diversi in codesti diversi governi, sono pur anche, come ognun vede, per un diverso fine ricercati. Nella tirannide, ciascuno vuol rappresentare al popolo una anche menoma parte del tiranno. Quindi un titolo, un nastro, o altra simile inezia, appagano spesso l’ambizioncella d’uno schiavicello; perchè questi onorucci fan prova, non già ch’egli sia veramente stimabile, ma che il tiranno lo stima; e perchè egli spera, non già che il popolo l’onori, ma che lo rispetti e lo tema. Nella repubblica, manifesta e non dubbia cosa è, per qual ragione gli onori si cerchino; perchè veramente onorano chi li riceve. L’ambizione d’arricchire, chiamata più propriamente, CUPIDIGIA, non può aver luogo nelle repubbliche, fin ch’elle corrotte non sono; e quando anche il siano, i mezzi per arricchirvi essendo principalmente la guerra, il commercio, e non mai la depredazione impunita del pubblico erario, ancorchè il guadagno sia uno scopo per sè stesso vilissimo, nondimeno per questi due mezzi egli viene ad essere la ricompensa di due sublimi virtù; il coraggio, e la fede. L ’ambizione d’arricchire è la più universale nelle tirannidi; e quanto elle sono più ricche ed estese, tanto più facile a soddisfarsi per vie non legittime da chiunque vi maneggia danaro del pubblico. Oltre questo, molti altri mezzi se ne trovano; e altrettanti esser sogliono, quanti sono i vizj del tiranno, e di chi lo governa. Op. Grande biblioteca della letteratura italiana ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli„Della Tirannide di Vittorio Alfieri