armigero
[ar-mì-ge-ro]
In sintesi
armato; guerriero, soldato
← dal lat. armigĕru(m), comp. di ărma ‘armi’ e gerĕre ‘portare’.
A
agg.
1
lett. Che porta armi; armato
2
fig. Pronto alle armi, bellicoso, guerriero: quella valle è fortissima e i valligiani armigeri (Machiavelli)
B
s.m.
1
Guerriero, uomo d'arme
|| Scudiero
|| ant., scherz. Soldato
2
Guardia del corpo
|| fig. Aiutante
Citazioni
“XXIII “Li quali poi che tutti gli ebbi con ritenente memoria compresi, bassati gli occhi, già più non potendoli rimirare, riguardai i verdi prati, e in essi, quale Elena sopra il morto Paride fu potuta vedere, m’apparve Venere. Ella, sedendo sopra le verdi erbette, teneva con la destra mano le lente redine d’un cavallo lì dimorante, e con la sinistra mano uno scudo e una lancia. E quasi piangendo, se piangere avessono potuto i divini occhi, pareva; e uno giovane, tutto di bellissime arme armato, guardava davanti a sé, il quale a me pareva giacente sanza anima. Io, prima presa non poca d’ammirazione, più ne presi questo veggendo. Ma, secondo il debito costume poste le ginocchia sopra la verde erba, con queste voci reverita prima la santa dèa, la domandai: “ ’O santissima deità, madre de’ piacevoli amori, acquistino le voci della tua serva merito d’essere udite nel tuo cospetto, e a quelle con la divina bocca, se degna ne sono, rispondi. E se è licito che a’ miei orecchi pervenga, dicendolo tu, non mi si nieghi la cagione del tuo dolore, il quale, nel viso divino mostrando li suoi vestigi, occupa non poco la sua chiarezza, e chi costui sia il quale qui morto guardi, come mi pare’. “Alle quali parole così con angelica voce rispose: “ ’Piacevole giovane, costui che tu qui vedi, dalla sua madre a me nella sua infanzia lasciato, ho io ne’ miei exercizii nutricato gran tempo, infino che a questa età, che nel suo viso coperto di folta barba discernere puoi, co’ miei fomenti l’ho sanza fatica recato; e ne’ miei exercizii li avea armi donate e cavallo, e cintolo di milizia a me graziosa, come tu vedi. E ora che le sue lunghe fatiche erano a’ meriti più vicine, alcuna deità operante, toltosi a me, il suo spirito vagabundo per l’aire, come hai veduto, ne va con colei che più m’offende, ond’io quella noia in me ne sostengo che cape nel divino petto. Ma perciò che, quello che uno iddio dispone, l’altro nol torna adietro, com’io posso il soffero mal contenta’. “Le sante voci, udite da me con animo attento, mi fecero pietosa, e dissi: “ ’O santa dèa, dà luogo all’ira e tempera le tue noie, alle quali tempo non si può tòrre: elle, ora che più aiuto che altro bisogna, non ci hanno luogo. Io con umana mano, quando ti piaccia, tenterò di fare quello che le divine costituzioni a sé non permettono, e forse il tuo armigero ti renderò sano e con intero dovere disposto a’ tuoi servigii’. “E questo detto, ritenente l’arco e gli strali nell’una delle mie mani, appressantemi al già freddo corpo, e il battente ancora petto disarmato, Op. Grande biblioteca della letteratura italiana ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli„Comedia delle ninfe fiorentine di Giovanni Boccaccio
“ancora le sparte reliquie della terra che per adietro, da Nettuno construtta al suono della cetera d’Appollo, fu d’altissime mura murata. Della quale, poi che il greco furore d’ogni cosa arsibile ebbe le sue fiamme pasciute, e l’alte rocche, con dispendio grandissimo tirate inverso il cielo, toccarono il piano con le loro sommità, e la rapita, cagione di queste cose, ricercò le camere male da lei per molti abandonate, uscirono giovani dannati ad etterno essilio. E vagabundi lasciati i liti africani, e la gran massa premente la testa del superbo Tifeo e gli abondevoli regni d’Ausonia e le rapaci onde di Rubicone e del Rodano trapassate, sopra le piacenti di Senna ritennero i passi loro; e forse con non altro agurio che Cadmo le tebane fortezze fermasse, fondarono una loro terra per abitazione perpetua e di loro e de’ successori. De’ quali essendo già dodici secoli trapassati e del tredecimo delle dieci parti le nove compiute, come ora del quartodecimo delle cinque le due, poi che dal cielo nuova progenie nacque intra’ mondani, di nobili parenti discese una vergine la quale essi pietosi ad uno armigero di Marte congiunsono con dolorose tede in matrimonio, bene sperantisi d’operare. E così in quelli luoghi andanti le cose, tra bretti monti surgenti quasi in mezzo tra Corito e la terra della nutrice di Romulo, di Tritolemo, uomo plebeio di nulla fama e di meno censo, già dato a’ servigii di Saturno e di Cerere per bisogno, e d’una rozza ninfa nacque un giovinetto di cui, sì come di non degno di fama, il nome taccio. Egli, benché mutasse abito, coperti sotto ingannevole viso li rozzi costumi, ritenne del padre in ogni cosa materiale e agreste e, non imitante i vestigii del generante, si dispuose a seguitare con somma sollicitudine Giunone la quale, a lui favorevole, in quelli luoghi il produsse; e ne’ servigii di lei, abondevolmente trattando i beni di quella, per lungo spazio trasse sua dimoranza, e agl’incoli parlando sé nobile, a’ nobili cotale mestiere, quale il suo era, essere per consuetudine antica mentiva. Dove dimorante elli, il dolente gufo donante tristi agurii a’ nuovi matrimonii della già detta vergine, con crudele morte vegnenti le sue significazioni, fu levato di mezzo colui che, poco più che fosse vivuto, mi saria stato padre; e lei, di senno e d’età giovinetta, sanza compagno rimasa nel vedovo letto, nelle oscure notti triste dimoranze traeva piangendo, infino a tanto che agli occhi vaghi di lei l’aveniticcio giovane di venusta forma, non simile al rustico animo, apparve, ma non so dove; la quale non altrimenti, vedendolo, sentì di Cupido le fiamme che facesse Didone, veduto lo strano Enea. E come colei di Sicceo, così questa del primo marito la memo-„Comedia delle ninfe fiorentine di Giovanni Boccaccio
“d’Enea pervenuti, avvenne per avventura che, il giorno a’ solenni sacrificii dovuto essendo presente, i circunstanti e multiplicati popoli con voci sonore apparecchiavano e a’ sacrificii e a’ giuochi le debite cose, con pompa maravigliosa e intenta a’ santi onori dello iddio, quando Achimenide co’ suoi compagni pervennero al luogo. E lieti per la trovata festa, già per più interamente vederla, co’ loro cavalli si voleano accostare alla santa quercia; ma dell’ordine de’ sacerdoti a’ sacrificii disposti di quello iddio partendosene, uno venne incontro ad Achimenide con queste parole: “ ’O chi che voi vi siate, o giovani, fermate i passi vostri, né i santi termini co’ vostri cavalli violate de’ campi di Marte, se la sua ira e quella de’ presenti popoli recusate’. “E loro il solco mostrato, da quello innanzi co’ cavalli vietò l’andata. Tirarono a queste voci gli armigeri le lente redini i passi fermando, il loro iddio dubitando d’offendere; e intenti rimiravano le solenni cose e con vago occhio le ninfe quivi venute miravano. Ma mentre che essi intenti a queste cose rimirano, Achimenide, stante sopra uno alto cavallo e di pelo soro, fortissimo, ornato di bellissima arme e lucente di molto oro, forse de’ doni da Enea ricevuti coperto, da quello, non giovanti le redine né la forza del soprastante, per mezzo l’adunato popolo e festante, e de’ parati flammini sanza offesa d’alcuno trapassati i dati termini, fu trasportato davanti a’ santi altari; e quivi con la testa levata, con fremire altissimo fermato, quale Pegaseo fece negli alti monti, cotale in terra dando del destro piede e la terra cavando, che mai violazione alcuna più non avea ricevuta, prima i circustanti turbò con paura e appresso li stupefece con maraviglia. Li quali non dopo molto, veggendo li sacrificii impediti e il santo luogo offeso dalle dure pedate dell’aspro cavallo, comincianti tumultuoso romore, tutti sopra Achimenide si rivolsero; e se quivi pietre o armi fossero state, l’ultimo suo giorno era venuto. Ma elli, rivolto a quello romore, con l’autorità che il suo viso testimoniava, con la mano levata, e a’ compagni venuti alla sua salute e a’ circustanti popoli impuose silenzio, i quali, ammoniti da’ flammini, avvegna che ardenti ne’ colui mali, tacendo ad ascoltare si dispuosero lui dicente così: “ ’O santissimi popoli, vacanti a’ sacrificii a me più cari, sanza ragione ma non sanza cagione inver’ di me adirati, non sia nell’animo vostro credibile me voluntario qui venuto ad impedirvi, ma invito, tirato dal mio cavallo, come poteste vedere; il quale, forse degli iddii ministro, alle neces-„Comedia delle ninfe fiorentine di Giovanni Boccaccio
“sacra Giunone, che con lieve colpo avea il prato percosso, quale ad Orione sopra le piane acque apparve il ricurvo dalfino, cotale, in alto levata la terra, un picciolo monte si vide davanti, del quale cadute le verdi foglie, quello essere lucentissimo oro lasciarono vedere. Ma alla savia Minerva, sedente alla sinistra di lei, nella presenzia si vide l’erbe prendere sùbita forma di vestimenti cari per maestero e per bellezza, non altrimenti cambiandosi che le tele delle figliuole del re Mineo in tralci con pampini per lo peccato commesso del dispregiato Bacco. Ma a Mercurio, che con ammirazione il luogo ferito da lui riguardava, così come ne’ colchidi campi arati dal tesalico giovane sùbito di serpentini denti si videro surgere armigeri, si poté riguardare, prima col capo irsuto, poi con aguti omeri e quindi tutto l’altro busto d’uno ruvido satiro uscire della terra e, sanza dire nulla, salvatico nel suo cospetto porsi a sedere. Appresso si vide davanti alla pietosa Venere diritti gambi, di frondi verdissime pieni, cotali della terra usciti quale la turea verga fu della sepultura di Leucotoen produtta da Febo, e quelli di bianchissimi gigli carichi nelle sommità loro. E ultimamente, come la terra dal tridente di Nettunno percossa partorì un cavallo, così davanti a Vertunno uno orecchiuto asino, il quale ragghiando fece tutto questo piano risonare, si vide uscito. Di questo risono tutti gl’iddii; ma, le risa rimase, ciascuno attento il viso rimirando di Giove, attendevano la sentenzia. Ma egli, questi effetti veduti, con alto pensiero li rivolge nel santo petto, e con estimazione da non opporvi, in sé di quelli giudica in questo modo. Egli prima l’asino vile e inerte, più di romore pieno che d’effetto, indegno di queste cose il condanna, e i gigli, avvegna che belli, caduci e poco duranti conosce; il satiro, reo e malvagio e con agreste aspetto disposto a male operare, agurio di futuro infortunio il reputa; le veste, avvegna che utili, fragili le conosce, e la massa dell’oro pigra e di briga cagione e d’affanni, né per sé medesima nobile, come pare agli stolti, discerne; e solo nella sua mente il fuoco utile a ogni cosa, etterno e a sua deità simile più ch’altro estimò dopo lungo pensiero. Per che così con voce aperta proferse agli aspettanti dèi: “ ’O meco tegnenti le case superne, con voce inrevocabile per sentenzia doniamo l’onore del nominare la presente città al belligero Marte, producitore in questi luoghi di più mirabili effetti che alcuno di voi’. “Niuno mormorio degli ascoltanti seguì queste parole, ma taciti aspettarono quale nome a quella si donasse da Marte. Il quale, acceso di rossa luce, i visi degli iddii rimirando, alquanto quello della sua amica conobbe„Comedia delle ninfe fiorentine di Giovanni Boccaccio
“Capitolo XIII Il conte Oddo, in questo mezzo, insieme con Niccolò Piccino, era entrato in Val di Lamona, per vedere di ridurre il signore di Faenza alla amicizia de’ Fiorentini, o almeno impedire Agnolo della Pergola, che non scorresse più liberamente per Romagna. Ma perché quella valle è fortissima e i valligiani armigeri, vi fu il conte Oddo morto, e Niccolò Piccino ne andò prigione a Faenza. Ma la fortuna volle che i Fiorentini ottenessero quello, per avere perduto che forse avendo vinto non arebbono ottenuto; perché Niccolò tanto operò con il signore di Faenza e con la madre, che gli fece amici a’ Fiorentini. Fu, in questo accordo, libero Niccolò Piccino: il quale non tenne per sé quel consiglio che gli aveva dato ad altri, perché, praticando con la città della sua condotta o che le condizioni gli paressero debili, o che le trovasse migliori altrove, quasi che ex abrupto si partì di Arezzo, dove era alle stanze, e ne andò in Lombardia, e prese soldo da il Duca. I Fiorentini, per questo accidente impauriti e dalle spesse perdite sbigottiti, giudicorono non potere più, soli, sostenere questa guerra; e mandorono oratori a’ Viniziani, a pregarli che dovessero opporsi, mentre che gli era loro facile, alla grandezza d’uno che, se lo lasciavano crescere, era così per essere pernizioso a loro come a’ Fiorentini. Confortavagli alla medesima impresa Francesco Carmignuola, uomo tenuto in quelli tempi nella guerra eccellentissimo, il quale era già stato soldato del Duca, ma di poi ribellatosi da quello. Stavano i Viniziani dubi, per non sapere quanto si potevano fidare del Carmignuola, dubitando che la inimicizia del Duca e sua non fusse finta. E stando così sospesi, nacque che il Duca, per mezzo d’uno servidore del Carmignuola, lo fece avvelenare; il quale veleno non fu sì potente che lo ammazzasse, ma lo ridusse allo estremo. Scoperta la cagione del male, i Viniziani si privorono di quello sospetto; e seguitando i Fiorentini di sollecitargli, feciono lega con loro; e ciascuna delle parti si obligò a fare la guerra a spese comune; e gli acquisti di Lombardia fussero de’ Viniziani, e quelli di Romagna e di Toscana de’ Fiorentini; e il Carmignuola fu capitano generale della lega. Ridussesi per tanto la guerra mediante questo accordo, in Lombardia dove fu governata da il Carmignuola virtuosamente, e in pochi mesi tolse molte terre al Duca, insieme con la città di Brescia; la quale espugnazione, in quelli tempi e secondo quelle guerre, fu tenuta mirabile.„Istorie fiorentine di Niccolo Machiavelli